Leggo con grande interesse gli scritti che animano di recente questo forum e che, in ambito scientifico, rilanciano i temi dell’indeterminatezza, della atemporalità, della percezione soggettiva. Rifletto dunque sui miei quarant’anni di professione medica e su quanto l’incontro con l’omeopatia mi abbia permesso di rimanere nell’esercizio della medicina e di riformularne le potenzialità. Io che volevo capire davvero se riuscivo a guarire le mie pazienti, io che vivevo ogni dipendenza del paziente da farmaci e da terapeuti un fallimento professionale, io che consideravo il dolore descritto dal paziente il centro dell’incontro clinico ma non trovavo traduzioni terapeutiche fedeli a quella sofferenza che il paziente mi affidava, io, finalmente, al culmine della mia frustrazione lavorativa ed esistenziale, ho incontrato l’omeopatia e ho potuto integrare tutta la mia conoscenza di studio ed esperienziale in un atto medico molto più completo, rispettoso, empatico ed efficace.
Questo è il punto: l’omeopatia utilizza una energia infinitesimamente piccola in assoluta risonanza con un sistema (malato) per potenziarne le risorse residue allo scopo di guarirlo. L’omeopatia è dunque una “informazione” che viene raggiunta e condivisa nell’incontro terapeutico tra medico e paziente, entrambi insieme, entrambi in ricerca (alleanza). Risponde dunque, senza dubbio, molto di più a criteri fisico-quantistici che non a parametri di fisica meccanicistica newtoniana. I maggiori detrattori dell’omeopatia infatti si accaniscono a chiedere agli omeopati criteri di riproducibilità e di misurabilità degli eventi e delle prescrizioni.
L’omeopatia ha bisogno di poco, al di fuori del malato, l’omeopatia chiede che si “nomini” il malato e non la malattia, cioè che lo si comprenda e che, di quel modo di percepire il dolore, il terapeuta intravveda una precisa immagine, la sua peculiare e unica modalità reattiva.
La possibilità di trovare in natura un sistema che reagisca in modo simile, permette di restituire al paziente un’analoga spinta energetica, coerente all’insorgenza del disturbo, alla sua gravità, alla sua storia, che la conosciamo o no.
L’omeopatia è semplice perché rientra nel paziente attraverso la porta che il paziente stesso sceglie di aprire (fisica, emozionale, intellettiva), ma, una volta entrata, la sua capacità di trasformazione lavora su tutti gli ambiti (fisici, emozionali, intellettivi), anche se il paziente non li aveva esplicitati.
L’omeopatia è libera da definizioni e permette di essere applicata anche quando dal punto di vista medico non conosciamo ancora le patologie. A gennaio di questo anno mi è capitato di curare una sindrome respiratoria con un rimedio omeopatico che poi è stato utilizzato frequentemente su malati Covid-19. Allora non avevamo sufficiente conoscenza, né avevamo tamponi ma il racconto del paziente mi ha guidata nella prescrizione e ne ha permesso la guarigione.
Per i Greci non esisteva distinzione tra arte e scienza: la parola “techne” significava il “saper fare”, la perizia, e per Ippocrate l’arte medica era appunto la mediazione profonda fra teoria ed esperienza. Con la traduzione latina della parola techne in “ars” si attribuisce a quest’ultima, l’arte, il campo della irrazionalità e si costruiscono le basi per uno iato tuttora esistente.
Hanhemann riporta il medico ad un compito elevatissimo rivalutando le sue capacità sensoriali, percettive e intellettive come unica possibile condizione per un risultato clinico positivo. Dunque il medico diventa un artista. Einstein nel 1929 dirà: “L’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata. L’immaginazione abbraccia il mondo.”
L’omeopatia è democraticissima, applicabile a tutti, umani, animali e vegetali, ed è ecologicissima ed economicissima … tutte qualità che… di questi tempi… non vanno molto di moda!
In attesa dunque di pensieri, spazi e tempi diversi nel mondo scientifico accademico, auspico un confronto, nel nostro piccolo, che dia respiro a vedute più trasversali e integrate.
Dott.ssa Marisa Cottini